Generoso e diligente in campo,
Beto Barbas conserva le stesse
doti anche fuori dal rettangolo di
gioco e questa biografia lo
dimostra. Accogliendo di buon
grado la nostra iniziativa, il
nostro campione si è raccontato
come si fa tra amici veri,
rivelandoci anche qualche
retroscena, forse inedito,
riguardante episodi che, in
determinati casi, hanno influito
sulla propria carriera e quindi
sulla propria vita e che vale la
pena leggere.
Sul web la sintesi è fondamentale,
ma se abbiamo deciso di non
ridurre all'essenziale questa
lunga pagina è perchè siamo certi
che ogni vero tifoso del Lecce non
saprà rinunciare ad una sola riga
della biografia
dell'indimenticabile campione Beto
Barbas. Buona lettura!
Gli esordi.
Come tanti bambini, ho
cominciato a giocare a calcio
per strada, nei campetti con gli
amici. Un giorno, un signore mi
vide giocare e mi portò al Racing Club:
cominciò tutto così.
Avevo 10 anni. Prima di allora
avevo fatto un provino al River Plate ed
ero stato selezionato tra 300 ragazzi;
ma poi non avevo avuto più
notizie. Nell’attesa di essere richiamato
per cominciare la mia attività in
quel club, quel signore mi offrì
la possibilità di provare col Racing.
In quell’occasione bastarono 10
minuti per entrare a far parte del
loro settore giovanile ma non ho
concluso tutta la trafila perchè
già 17 anni ero
già entrato in pianta stabile in prima
squadra. Mi ero fatto notare
grazie durante le partite che noi
ragazzi disputavamo per
intrattenere il pubblico prima
delle gare di campionato della
squadra maggiore.
Nazionale Under 20 campione del
Mondo.
Fu un’esperienza meravigliosa. La
nostra era una compagine piena di
talenti, dei quali solo io e Diego
Maradona militavamo nelle
formazioni maggiori. Tra i
componenti di quella nazionale,
comunque,
solo pochi hanno giocato
all’estero e i loro nomi non sono
molto noti in Europa; ma vi
assicuro che erano giocatori di
gran talento.
Fu il primo titolo mondiale
Juniores vinto dall’Argentina, ma
credo che i festeggiamenti per
quel titolo furono, se possibile,
superiori rispetto a quelli che
l'anno precedente
(1978) furono riservati alla nazionale maggiore,
campione del mondo contro
l’Olanda.
Al ritorno dal Giappone, facemmo
scalo in Brasile ma il presidente
argentino ci inviò un aereo di
stato per portarci subito in
Argentina, dato che tutta la gente
era in strada ad aspettarci.
Ricordo che, dall’aeroporto di Buenos Aires,
fummo trasferiti in elicottero
nello stadio dell’Atlanta e da lì,
in pullman tra due ali di folla in
delirio, giungemmo nella sede
dell’AFA (Federazione Calcio
Argentina) dove ci attendevano i
vertici della Federazione. Fu indimenticabile!
MUNDIAL ESPANA 1982.
Un'altra tappa fondamentale della
mia carriera è stata la mia
partecipazione ai Mondiali di
Spagna dell’82. Malgrado
disponessimo di un ottimo organico
(la nostra squadra era considerata
una delle pretendenti al titolo),
non riuscimmo ad andare oltre il
secondo turno. Dopo aver
brillantemente superato il girone
iniziale, ci ritrovammo in un
girone di ferro: Italia (che
proprio contro di noi cominciò la
sua inarrestabile marcia verso la
finale) e il Brasile di Zico,
Socrates e Falcao. Fu triste
abbandonare il mondiale, anche
perchè eravamo campioni in carica.
Forse ci fu fatale la sconfitta di
misura contro l'Italia (2-1)
perchè poi finimmo per non opporre
una grande resistenza nei
confronti del Brasile,
ritrovandoci fuori dalla
competizione più bella del mondo.
L'amarezza dell’eliminazione,
tuttavia, fu in parte compensata da
un'esperienza che per me resta indimenticabile.
Dal Racing al Real Saragozza.
La prima importante svolta nella
mia carriera di calciatore avvenne
in occasione di una partita
amichevole Argentina-Germania. Ad
assistere alla gara c'era un
tecnico, l'olandese Leo
Beenhakker, allenatore del Real
Saragozza, il quale restò
positivamente impressionato dalla
mia prestazione e volle subito portarmi nel
campionato spagnolo. Fu così che
mi ritrovai a giocare in Spagna
per tre stagioni dal 1982/83 al 1984/85.
Nel corso di questi campionati il
mio livello di rendimento fu
abbastanza alto, tanto da
ottenere un importante
riconoscimento: la coppa quale miglior giocatore
straniero del campionato spagnolo.
Nella mia terza ed ultima stagione in
Spagna, il tecnico del Real
Saragozza fu Enzo Ferrari (che poi
andò ad allenare la Triestina). Fu
anche grazie alle sue referenze
che il
Lecce decise di puntare su di me.
Il Lecce.
Ottenuta la prima storica
promozione in A,
Eugenio Fascetti era
alla ricerca di un regista a cui
affidare il centrocampo.
Contattò mister Ferrari, il quale
mi segnalò assicurandogli che
avrei certamente fatto al caso del
Lecce. Così in breve la trattativa
fu portata a termine e si
concretizzò il sogno di giocare
nel campionato più bello del
mondo, nel quale militavano il mio
amico Maradona, Zico, Platini,
Paolo Rossi. Oltre al regista, Cataldo e Jurlano
cercavano anche un attaccante
straniero che
facesse coppia con me nella nuova
squadra.
Erano già sulle tracce di Francescoli, ma tra lui e Pasculli
scelsero senza tentennamenti
Pedro Pablo, capocannoniere quell’anno
nel campionato argentino. Avere un
connazionale in squadra fu
importante per il nostro
ambientamento, e sin da allora,
io e Pedro, siamo legati
da grande amicizia e ancora oggi ci sentiamo molto
spesso.
Arrivato a Lecce è bastato un
attimo per innamorarmi della città
e del Salento, sia per bellezza
del posto sia per il calore della
gente. Ricordo che alla
presentazione c’era tanta gente
che ci aspettava, carica di
entusiasmo.
Lecce e il Lecce mi sono rimasti
nel cuore perchè sono stato
accolto molto bene da tutti.
Considero quei cinque anni la
parentesi più felice, per me e
per la mia famiglia, ed è
straordinario che in tanti si
ricordino ancora di me, malgrado
siano passati molti anni ormai. Nessuno mi
ha fatto mancare qualcosa e ancora
oggi ripenso con tanta
nostalgia a quel meraviglioso
periodo e ai tanti amici che
abbiamo lasciato lì.
Franco Jurlano.
Il presidente Jurlano è stato un presidente che mi ha
coccolato, sempre pronto a
venirmi incontro per risolvere
ogni minimo problema, dimostrando
molta disponibilità ed affetto sia
nei miei confronti sia nei
confronti della mia famiglia. La sua scomparsa mi
ha addolorato molto. Come presidente,
era fuori dagli schemi, perchè
dimostrava di essere soprattutto
un
tifoso. Era sempre presente,
accanto a noi anche in ritiro, vulcanico,
simpaticamente irascibile,
ma con me sempre un gentiluomo.
A chi non lo conosceva bene,
poteva dare l'impressione di
essere burbero, talvolta, ma vi
assicuro che era di una
simpatia contagiosa. Ripeto, con
me è
stato straordinario, e ha cercato in
tutti i modi di trattenermi a
Lecce per sempre. Inutile dire che
mi è dispiaciuto tantissimo dover andar
via da Lecce, in seguito a vicende che mi
hanno molto deluso; ma le
responsabilità di quella decisione
non sono da addebitare al
presidente Jurlano.
La retrocessione e l’impresa
dell’Olimpico.
Prima di venire a giocare in
Italia, non conoscevo il Lecce. Mi
era stato detto che si trattava di
una squadra neo-promossa in serie
A che avrebbe fatto di tutto per
restare nella massima serie. Ma
l'idea di dover lottare per un
traguardo meno prestigioso non era
assolutamente un problema per me, dato che il
sol fatto di giocare nel
campionato italiano rappresentava
qualcosa di fantastico. In
quella prima stagione, purtroppo,
tante cose non girarono per il
verso giusto, e finimmo per
retrocedere con molte giornate
d’anticipo. Partimmo bene,
mettendo paura ai campioni
d'Italia del Verona al Bentegodi
(2-2) e dopo un'interminabile
serie di sconfitte esterne
chiudemmo con un'impresa ormai
passata alla storia: scucire lo
scudetto dalle maglie della Roma
di Ericsson. Quel giorno fu
incredibile: lo stadio Olimpico
era un tripudio giallorosso (tutto
di parte romanista) e prima della
partita l’atmosfera era quella di
un campionato ormai vinto. Nel
pre-partita, i vertici della Roma,
rappresentanti della tifoseria
ecc. si abbandonarono a giri
d'onore e a prematuri
festeggiamenti.
L'atmosfera era tale che la Roma scese in campo rilassata.
E noi altrettanto, dato che anche in
caso di sconfitta non
sarebbe cambiato nulla. Loro, invece, battendoci avrebbero messo
le mani sullo scudetto. Dopo
appena 7 minuti eravamo sotto di
un gol (Graziani) ma poi riuscimmo
a pareggiare con Albertino Di
Chiara; successivamente, ci portammo sul
3 -1 con una mia doppietta. La
partita finì 3-2 per noi, tra
l’incredulità generale. Boniek (ex
juventino), ci voleva ammazzare
tutti per lo scudetto ormai
svanito per “colpa” nostra.
Nell’ultima partita la Roma, ormai
demoralizzata, andò a perdere a
Como mentre la Juventus, pur soffrendo
tanto, riuscì a batterci a Lecce, soffiando
praticamente sul filo di lana lo scudetto alla
squadra di Ericsson.
La
“vendetta”di Fiumicino.
A proposito di quella storica
partita, le conseguenze si son
fatte sentire anche 3 anni fa. Tornando
nel Salento per giocare una
partita di beneficenza, sbarcai a
Fiumicino: fermato da alcuni
poliziotti per i controlli di rito,
mi fu chiesto di seguirli
nell’ufficio di Polizia. Viaggiavo
completamente da solo e, devo
confessarvi, mi sono spaventato un
bel po'! Non capivo il motivo di
quei controlli supplementari.
Invece, dopo aver fornito ancora
una volta le mie generalità, mi
fu chiesto se fossi io quel Barbas
che aveva militato nel Lecce. Ed
io confermai. Così mi dissero:
“Per colpa sua abbiamo perso lo
scudetto… adesso gliela faremo
pagare... arrestandola!”. Una risata
generale mi fece capire di essere
stato vittima di una
simpatica burla, ma vi garantisco
che mi ero allarmato non poco per
tutta quella strana situazione.
La Serie B e l’amarezza degli
spareggi.
Dopo la retrocessione in Serie B,
non fu un problema
per me affrontare una nuova esperienza
in un campionato meno meno
prestigioso come quello cadetto.
Peraltro, disputammo
due stagioni avvincenti! Nel
primo anno, dopo una rincorsa
entusiasmante, chiudemmo al terzo
posto insieme a Cremonese e
Cesena. Fummo pertanto costretti a
giocarci agli spareggi
l’ultimo posto disponibile per la
promozione in A. Purtroppo non ci
andò bene, perché nella
partita-bis contro il Cesena, a S.Benedetto del Tronto, fummo
sconfitti 2-1. Per me la delusione
fu due volte più cocente, dal
momento che non giocai quella
sfortunata gara per
squalifica. Dopo aver pareggiato la prima
partita a Pescara contro il Cesena
(0-0), ci liberammo della
Cremonese con un sonante 4-1. Ma
proprio nel corso di questo match fui
ammonito per una sciocchezza ma
quel cartellino mi fece saltare la
sfida decisiva, essendo in diffida.
Peccato! Eravamo i
favoriti e ricordo ancora le
decine di migliaia di salentini
che colorarono gli stadi in cui
giocammo le partite degli
spareggi. Archiviata quella
delusione, nella stagione
successiva conquistammo la
promozione in A grazie ad un
campionato molto convincente. Guidati da Carletto Mazzone
(subentrato a Santin nel corso della
stagione precedente), chiudemmo
al secondo posto tra l’entusiasmo
indescrivibile dell’intero Salento.
Carletto Mazzone.
E’ stato un secondo padre per me.
Anche lui, uomo dall'aria severa, con me si è dimostrato
sempre disponibile, comprensivo e
affettuoso. Anche se non esitava a
riprendermi in allenamento. Ma i
suoi rimbrotti erano sempre a fin di bene
e solitamente destinati a me per far
intendere a tutti gli altri. Mi è
stato accanto nei momenti più
difficili, dandomi sempre preziosi
consigli e mettendosi a
disposizione in ogni circostanza.
Alla squadra trasmetteva una
grinta incredibile e sapeva come creare
un gruppo compatto. E ottenne sempre l’obiettivo prefissato:
promozione in A, tre
campionati consecutivi nella
massima serie,
record storico per il Lecce.
Ancora oggi mi
diverto a riguardare le immagini
di Lecce-Torino 3-1, quando il
mister, dopo il mio gol su
punizione, sfogò contro un
secchio d'acqua tutta la rabbia
per la campagna di stampa
che ci aveva accompagnato per
tutta la settimana, spudoratamente a
favore del Toro . Una
scena indimenticabile!
Dopo le tre salvezze consecutive
in Serie A, le sue legittime
aspirazioni a puntare più in alto
con il Lecce lo portarono alla
decisione di lasciare il Salento.
Ma il tecnico (e l’uomo) Mazzone
resta una figura fondamentale
nella mia vita e ritengo che mi
abbia fatto crescere molto in
tutti i sensi. Ci legava una
profonda stima e un sincero
affetto. Ricordo che una sera,
mentre eravamo in ritiro in hotel
e stavamo conversando, mi disse:
“Beto, vai al bar e torna con due
whisky”. Io, sorpreso dalla sua
richiesta gli chiesi: “Mister,
come DUE whisky…?!”, ben sapendo che
ad un atleta quel tipo di drink
non è assolutamente consentito. E
lui prontamente replicò: “Dai Beto,
fai come ti ho detto e bevi subito,
ché se ti vede il tuo allenatore
ti multa!”. Lui è fatto così, sa
gestire perfettamente i suoi
giocatori. E’ come un padre,
in grado di capire quando usare il
polso e quando essere
accondiscendente.
Derby e i gol più belli
Vivevo i derby contro il Bari come
tutti i tifosi salentini: già una
settimana prima della partita ero
in clima-gara e volevo già essere
in campo. Tutta la città pensava
solo a quella partita, e si
sentiva che per loro era un match
a parte. Per quanto mi riguardava,
invece, era una partita come tutte
le altre perché la mia voglia di
vincere non dipendeva
dall’avversario che avevo davanti:
in qualsiasi cosa giocassi, a
carte come al calcio balilla, al
biliardo ecc. volevo sempre
vincere. Per me quindi era sì una
sfida particolare ma non una
partita in piu’. Ricordo che prima
del derby la gente
ti fermava per strada e ti faceva
sentire quanto ci tenesse alla
vittoria: "Dobbiamo
vincere a tutti i costi, mi
raccomando!” e noi facevamo del
nostro meglio per vincere per i
nostri tifosi.
Il derby che ricordo con più
piacere è quello vinto grazie ad
un mio gol su calcio di punizione
(campionato di Serie B 1987/88):
De Trizio si mise sul palo e, pur
saltando, non riuscì ad evitare che
il mio tiro passasse tra la sua
testa e la traversa. Ogni tanto mi
capita di rivedere il filmato di
quel bel gol…
Comunque, senza falsa modestia, di
reti belle ne ho realizzate
diverse. La più bella,
probabilmente, è quella segnata al
Genoa. Bella quanto strana: il mio
tiro colpì la traversa, si impennò
in aria e, battendo a terra, per
uno strano effetto finì in rete.
Un gol davvero raro a vedersi.
La rete che per me ha un
significato particolare, invece,
la segnai all’Udinese. Nel corso
della settimana era venuta a
mancare mia suocera, in Argentina,
alla quale ero molto legato. Ci
tenevo tantissimo a dedicarle un
gol, dato che non mi fu possibile
essere presente al suo funerale.
Fu anche quello su punizione, con
il pallone che riuscì a sorvolare
la barriera di quel tanto che
bastava per mettere fuori causa il
portiere.
Il triste addio al Lecce.
Il giorno in cui ho saputo che non
rientravo più nei piani del Lecce
è stato il più brutto della mia
vita. Era l’estate del 1990.
Parlando con il diesse Cataldo
avevo avuto la netta sensazione
che sarei rimasto a Lecce e sapevo
che Jurlano mi avrebbe tenuto a
vita. Ma poi, con l’arrivo di
Boniek, i piani evidentemente
cambiarono.
Fui convocato in società dallo
stesso Cataldo e mi fu proposto il
prolungamento del contratto per
un’altra stagione a condizione
che, se non fossi andato bene, a
giugno mi avrebbero lasciato
libero e, nel frattempo, mi
avrebbero regolarmente pagato lo
stipendio. Sapendo che ero ancora
in buona forma e pensando a tutto
ciò che avevo dato al Lecce,
accettai senza esitare, sicuro che
non ci sarebbe stato alcun
problema, neppure dal punto di
vista economico visto che non
avevo chiesto alcun aumento.
Andai al mare e al mio ritorno a
casa, in serata, un amico mi
chiamò e mi chiese: “Hai letto i
giornali? Boniek ha voluto
Alejnikov e non ha voluto te!” A
quelle parole era come se mi fosse
crollato il mondo addosso. Non
avrei mai immaginato che, dopo
tutto quello che avevo dato al
Lecce, il destino mi avrebbe
riservato quell’addio forzato. Non
riuscivo a crederci ma purtroppo
era così. Mi sono sempre chiesto
quale fu il vero motivo che portò
Boniek a scaricarmi in quel modo,
ma non sono riuscito mai a darmi
una risposta. Eppure a Lecce mi
volevano tutti, avevo anche preso
la cittadinanza italiana… Qualche
volta sono stato tentato di
pensare che quella famosa partita
Roma-Lecce 2-3 che gli fece
perdere lo scudetto con la Roma (e
nella quale segnai due gol) abbia
potuto influire nella sua
decisione. O magari non gradiva la
mia presenza perché troppo amato
dai tifosi, mentre voleva essere
lui il protagonista di quel Lecce.
Non so proprio spiegarmelo ma di
certo la sua scelta ha determinato
una svolta notevole alla mia
carriera e alla mia vita. Ero
disposto a tutto pur di restare a
Lecce, ma non certo a rubare lo
stipendio. Così non mi restava che
cambiare squadra. Sapevo che il
Brindisi, che militava in C1, era
molto interessato al mio
cartellino. Era una buona
soluzione, soprattutto perchè mi
avrebbe consentito di rimanere a
Lecce: tuttavia si trattava di
un’operazione molto difficile da
portare a termine anche a causa di
una differenza di categoria non
indifferente. Fu così che il mio
procuratore mi prospettò la
possibilità di trasferirmi in
Svizzera, al Locarno.
L’esperienza svizzera
A dire il vero, l’esperienza in
Svizzera è stata la parentesi
della mia vita e della mia
carriera che ricordo con meno
piacere. Per svariati motivi non
mi sono trovato bene come a Lecce.
Mi mancava quel calore che mi
aveva sempre circondato. Qui tutto
era freddo. A Lecce, dopo ogni
partita, ti aspettavano all’uscita
dello stadio per un autografo, una
foto, sentivi chiamare il tuo
nome. In Svizzera niente di tutto
questo. All’uscita ti aspettavano
solo i custodi dello stadio che
non vedevano l’ora di chiudere il
portone. Nessun giornalista,
nessun tifoso ad aspettarti. Una
freddezza a cui non ero abituato.
Un’esperienza che considero
davvero negativa. Tra l’altro non
parlavo e non capivo il francese e
soffrivo la lontananza dalla mia
famiglia, rimasta a Lecce. Il mio
inatteso passaggio al Locarno,
infatti, non ci aveva permesso di
organizzare il trasferimento della
mia famiglia in Svizzera, anche
perché le mie figlie già
frequentavano la scuola a Lecce. Fortunatamente,
ogni volta che potevo scendevo giù
nel Salento, oppure era la mia famiglia
a venire a trovarmi su a Locarno.
Fu un anno difficile. L’anno
successivo, nel Sion, qualcosa
migliorò per me. Avevo di nuovo la
famiglia accanto e anche la
stagione mi riservò la
soddisfazione di vincere il
campionato elvetico.
Il ritorno in Argentina.
A 34 anni stavo ancora bene
fisicamente, mai un infortunio.
Ero ancora in forma. Il mio
desiderio era sempre quello di
tornare a Lecce ma ancora una
volta non fu possibile. Era giunto
il momento di tornare in
Argentina, anche perché neppure la
mia famiglia si era ambientata in
Svizzera.
In Argentina ho ricominciato a nell’Huracàn
ma dopo 6 mesi, a causa di un
infortunio al ginocchio, sono
stato costretto a fermarmi. La mia
grande passione per il calcio mi
fece ricominciare a giocare, anche
se in una serie inferiore
nell'Alvarado. In
seguito ad alcuni problemi
societari, passai all'All Boys in
serie B, chiamato da un mio ex
allenatore ai tempi del Racing, il
quale
nonostante i miei 35 anni, mi
considerava ancora un calciatore
su cui puntare. Lasciai il calcio
giocato nel 1998 e mi fu
subito proposto di allenare la seconda
squadra. Una nuova esperienza, ma
molto coinvolgente. Dopo la
parentesi All Boys, ho allenato la "Primavera" del Racing Club, dove ho avuto
l'opportunità di selezionare ed
allenare calciatori che oggi sono
protagonisti nel campionato
Argentino. Attualmente alleno la
"Primavera" del San Lorenzo (la
prima squadra è affidata ad una
vecchia conoscenza del campionato
italiano, Ramon Diaz). Allenare è
un'attività che mi piace molto e
regala tante emozioni, ma
devo ammettere che il mio sogno
sarebbe quello di allenare in
Italia.
Lecce, il Salento e i miei ricordi.
Non saprei da dove cominciare.
Sono tanti i ricordi che mi legano
a quella terra che mi ha accolto,
coccolato e fatto crescere come
uomo. E sono tutti ricordi
meravigliosi, per me e per la mia
famiglia. Pensiamo spesso a quel
periodo, ai tanti amici che ci
hanno fatto ambientare senza
problemi e sentirci come a casa
nostra. Con qualche amico ed ex
compagno di squadra mi sento tuttora e, in occasione di un mio
ritorno qualche anno fa, è stato
bellissimo ritrovarmi con alcuni
di loro. Checco Moriero, Pedro
Pablo Pasculli e tanti altri amici
mi hanno accolto come se tutti
questi anni non fossero mai
trascorsi.
Ho potuto rivedere quegli
incantevoli posti che
frequentavamo: Porto Cesareo,
Otranto, Gallipoli, Castro, Leuca,
Maglie e altre località dove
abbiamo lasciato tanti amici che
ricordiamo sempre con piacere.
Così come non è possibile
dimenticare la vostra squisita
cucina: eravamo ghiottissimi di
pesce, ma dobbiamo ammettere che
da voi tutto ha un sapore
eccezionale. In poche parole ci
manca tutto del Salento e nel
nostro cuore c'è sempre il
desiderio di tornare nel posto in
cui ci siamo trovati meglio e al
quale siamo ancora tanto legati.
Ancora oggi, quando a Buenos Aires
noto dei turisti parlare italiano,
sono spinto ad avvicinarmi e
parlare la vostra bellissima
lingua. Gli anni passano, e mi
dispiacerebbe dimenticarla... così
a volte non mi lascio sfuggire
l'occasione di parlare italiano
per qualche minuto.
L'amicizia con Diego Armando
Maradona.
L’ho conosciuto in nazionale
juniores nel 1979, in occasione di
un provino riservato a tutti i
calciatori che erano nel giro
delle rispettive prime squadre. Diventammo
subito molto amici, probabilmente ci legavano le nostre umili
origini. Ricordo che andavamo
spesso all’allenamento con la sua
auto, visto che io non ce l’avevo.
Entrambi venivamo da una famiglia
umile e ci è costato tanti
sacrifici e lavoro arrivare in
nazionale juniores e poi in quella
maggiore. In ritiro dividevamo la
stessa stanza e, successivamente, le
nostre fidanzate si sono
conosciute diventando molto
amiche. Così frequentavamo spesso
casa di Diego e il nostro ottimo
rapporto d'amicizia è diventato
duraturo.
Proprio per questo ci è molto
dispiaciuto per i problemi che
Diego si è ritrovato ad affrontare
dopo la sua carriera calcistica. E
in virtù della profonda amicizia
che ci sempre legati ho sofferto
molto, insieme alla mia
famiglia, per il suo precario
stato di salute. Fortunatamente
ora si è rimesso e gira il mondo.
Anzi, ho saputo che proprio in
questi giorni si trova in Italia,
ospite di qualche suo ex compagno
del Napoli.
Io per certi versi posso
immaginare quale sia stata
l’origine dei suoi problemi: non è
facile essere Maradona,
personaggio celebre in tutti gli
angoli del mondo. Da sempre, non è
libero di camminare per strada
senza essere riconosciuto e
stretto in una morsa di affetto
che però non gli consente di
vivere una vita normale, di aver
diritto alla sua privacy. Ho
assistito personalmente a tutto
questo andando al ristorante o
bevendo un caffè con lui:
continuamente
foto, autografi e ogni genere di
richieste.
Se poi pensiamo a cosa ha dovuto
subire per essere sempre il n.1
nel calcio… il quadro è completo.
Infortuni che hanno minacciato di
troncargli la carriera sin da
giovane, superati con sofferenza,
incredibile impegno e sudore. Per
poter continuare a giocare a
calcio si doveva sottoporre a
continue infiltrazioni al ginocchio e
alla caviglia, sempre doloranti, e
solo lui sa la sofferenza che
tutto ciò gli procurava. Era il
costo per poter essere il più
grande nel suo sport. E ancora
oggi sconta questo privilegio.
Mi fa piacere che ora riesca a
condurre una
vita molto attiva, questo lo aiuta
tanto. Ma per questo motivo,
purtroppo, non riusciamo a
sentirci o a vederci spesso come
in passato, anche se i contatti
tra mia moglie Adriana e sua
moglie Claudia restano ancora
frequenti. Tra l’altro, proprio
Claudia è stata la madrina di
battesimo della mia seconda figlia
Daniela, che adesso ha 22 anni.
La mia famiglia.
Mia moglie e le mie figlie sono
quanto di più bello la vita mi
abbia
regalato. L’affetto dei miei cari
ha sempre avuto un posto di rilevo
per me. Ovunque sia stato, la mia
famiglia mi è stata accanto. Mia
moglie Adriana mi ha sostenuto ed è stata fondamentale
in ogni aspetto della mia vita. Ci
siamo sposati quando io avevo 22
anni e mia moglie 19. Per un
calciatore è molto importante
il sostegno di una moglie e, nel
mio caso, devo ammettere che senza
di lei non sarei stato il
calciatore e l’uomo che sono.
Abbiamo avuto tre figlie,
tutte nate in Argentina. La maggiore è
Gabriela, nata nel 1983; due anni
dopo abbiamo avuto Daniela e, dopo
la mia carriera calcistica in
Europa, è nata Maria Victoria, nel 1994. Mi farebbe piacere poterle mostrare il Salento,
la terra nella quale i suoi
genitori e le sue sorelle più
grandi si sono trovati meravigliosamente bene.
Terra che lei non ha ancora avuto modo di
conoscere. Chissà, prima o poi...!
Un caro saluto a tutti voi!
Beto Barbas
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