La leggenda di
Ciro e Michele
a cura di Wolfy
 

Generoso e diligente in campo, Beto Barbas conserva le stesse doti anche fuori dal rettangolo di gioco e questa biografia lo dimostra. Accogliendo di buon grado la nostra iniziativa, il nostro campione si è raccontato come si fa tra amici veri, rivelandoci anche qualche retroscena, forse inedito, riguardante episodi che, in determinati casi, hanno influito sulla propria carriera e quindi sulla propria vita e che vale la pena leggere.
Sul web la sintesi è fondamentale, ma se abbiamo deciso di non ridurre all'essenziale questa lunga pagina è perchè siamo certi che ogni vero tifoso del Lecce non saprà rinunciare ad una sola riga della biografia dell'indimenticabile campione Beto Barbas. Buona lettura!                                              


Gli esordi.

Come tanti bambini, ho cominciato a giocare a calcio per strada, nei campetti con gli amici. Un giorno, un signore mi vide giocare e mi portò al Racing Club: cominciò tutto così. Avevo 10 anni. Prima di allora avevo fatto un provino al River Plate ed ero stato selezionato tra 300 ragazzi; ma poi non avevo avuto più notizie. Nell’attesa di essere richiamato per cominciare la mia attività in quel club, quel signore mi offrì la possibilità di provare col Racing. In quell’occasione bastarono 10 minuti per entrare a far parte del loro settore giovanile ma non ho concluso tutta la trafila perchè già 17 anni ero già entrato in pianta stabile in prima squadra. Mi ero fatto notare grazie durante le partite che noi ragazzi disputavamo per intrattenere il pubblico prima delle gare di campionato della squadra maggiore.
 

Nazionale Under 20 campione del Mondo.

Fu un’esperienza meravigliosa. La nostra era una compagine piena di talenti, dei quali solo io e Diego Maradona  militavamo nelle formazioni maggiori. Tra i componenti di quella nazionale, comunque, solo pochi hanno giocato all’estero e i loro nomi non sono molto noti in Europa; ma vi assicuro che erano giocatori di gran talento. Fu il primo titolo mondiale Juniores vinto dall’Argentina, ma credo che i festeggiamenti per quel titolo furono, se possibile, superiori rispetto a quelli che l'anno precedente (1978) furono riservati alla nazionale maggiore, campione del mondo contro l’Olanda.
Al ritorno dal Giappone, facemmo scalo in Brasile ma il presidente argentino ci inviò un aereo di stato per portarci subito in Argentina, dato che tutta la gente era in strada ad aspettarci. Ricordo che, dall’aeroporto di Buenos Aires, fummo trasferiti in elicottero nello stadio dell’Atlanta e da lì, in pullman tra due ali di folla in delirio, giungemmo nella sede dell’AFA (Federazione Calcio Argentina) dove ci attendevano i vertici della Federazione.  Fu indimenticabile!


MUNDIAL ESPANA 1982.

Un'altra tappa fondamentale della mia carriera è stata la mia partecipazione ai Mondiali di Spagna dell’82. Malgrado disponessimo di un ottimo organico (la nostra squadra era considerata una delle pretendenti al titolo), non riuscimmo ad andare oltre il secondo turno. Dopo aver brillantemente superato il girone iniziale, ci ritrovammo in un girone di ferro: Italia (che proprio contro di noi cominciò la sua inarrestabile marcia verso la finale) e il Brasile di Zico, Socrates e Falcao. Fu triste abbandonare il mondiale, anche perchè eravamo campioni in carica. Forse ci fu fatale la sconfitta di misura contro l'Italia (2-1) perchè poi finimmo per non opporre una grande resistenza nei confronti del Brasile, ritrovandoci fuori dalla competizione più bella del mondo. L'amarezza dell’eliminazione, tuttavia, fu in parte compensata da un'esperienza che per me resta indimenticabile.


Dal Racing al Real Saragozza.

La prima importante svolta nella mia carriera di calciatore avvenne in occasione di una partita amichevole Argentina-Germania. Ad assistere alla gara c'era un tecnico, l'olandese Leo Beenhakker, allenatore del Real Saragozza, il quale restò positivamente impressionato dalla mia prestazione e volle subito portarmi nel campionato spagnolo. Fu così che mi ritrovai a giocare in Spagna per tre stagioni dal 1982/83 al 1984/85. Nel corso di questi campionati il mio livello di rendimento fu abbastanza alto, tanto da ottenere un importante riconoscimento: la coppa quale miglior giocatore straniero del campionato spagnolo. Nella mia terza ed ultima stagione in Spagna, il tecnico del Real Saragozza fu Enzo Ferrari (che poi andò ad allenare la Triestina). Fu anche grazie alle sue referenze che il Lecce decise di puntare su di me.


Il Lecce.

Ottenuta la prima storica promozione in A, Eugenio Fascetti era alla ricerca di un regista a cui affidare il centrocampo. Contattò mister Ferrari, il quale mi segnalò assicurandogli che avrei certamente fatto al caso del Lecce. Così in breve la trattativa fu portata a termine e si concretizzò il sogno di giocare nel campionato più bello del mondo, nel quale militavano il mio amico Maradona, Zico, Platini, Paolo Rossi. Oltre al regista, Cataldo e Jurlano cercavano anche un attaccante straniero che facesse coppia con me nella nuova squadra. Erano già sulle tracce di Francescoli, ma tra lui e Pasculli scelsero senza tentennamenti Pedro Pablo, capocannoniere quell’anno nel campionato argentino. Avere un connazionale in squadra fu importante per il nostro ambientamento, e sin da allora, io e Pedro, siamo legati da grande amicizia e ancora oggi ci sentiamo molto spesso.
Arrivato a Lecce è bastato un attimo per innamorarmi della città e del Salento, sia per bellezza del posto sia per il calore della gente. Ricordo che alla presentazione c’era tanta gente che ci aspettava, carica di entusiasmo.
Lecce e il Lecce mi sono rimasti nel cuore perchè sono stato accolto molto bene da tutti. Considero quei cinque anni la parentesi più felice, per me e per la mia famiglia, ed è straordinario che in tanti si ricordino ancora di me, malgrado siano passati molti anni ormai. Nessuno mi ha fatto mancare qualcosa e ancora oggi ripenso con tanta nostalgia a quel meraviglioso periodo e ai tanti amici che abbiamo lasciato lì.


Franco Jurlano.

Il presidente Jurlano è stato un presidente che mi ha coccolato, sempre pronto a venirmi incontro per risolvere ogni minimo problema, dimostrando molta disponibilità ed affetto sia nei miei confronti sia nei confronti della mia famiglia. La sua scomparsa mi ha addolorato molto. Come presidente, era fuori dagli schemi, perchè dimostrava di essere soprattutto un tifoso. Era sempre presente, accanto a noi anche in ritiro, vulcanico, simpaticamente irascibile, ma con me sempre un gentiluomo. A chi non lo conosceva bene, poteva dare l'impressione di essere burbero, talvolta, ma vi assicuro che era di una simpatia contagiosa. Ripeto, con me è stato straordinario, e ha cercato in tutti i modi di trattenermi a Lecce per sempre. Inutile dire che mi è dispiaciuto tantissimo dover andar via da Lecce, in seguito a vicende che mi hanno molto deluso; ma le responsabilità di quella decisione non sono da addebitare al presidente Jurlano.
 

La retrocessione e l’impresa dell’Olimpico.

Prima di venire a giocare in Italia, non conoscevo il Lecce. Mi era stato detto che si trattava di una squadra neo-promossa in serie A che avrebbe fatto di tutto per restare nella massima serie. Ma l'idea di dover lottare per un traguardo meno prestigioso non era assolutamente un problema per me, dato che il sol fatto di giocare nel campionato italiano rappresentava qualcosa di fantastico. In quella prima stagione, purtroppo, tante cose non girarono per il verso giusto, e finimmo per retrocedere con molte giornate d’anticipo. Partimmo bene, mettendo paura ai campioni d'Italia del Verona al Bentegodi (2-2) e dopo un'interminabile serie di sconfitte esterne chiudemmo con un'impresa ormai passata alla storia: scucire lo scudetto dalle maglie della Roma di Ericsson. Quel giorno fu incredibile:  lo stadio Olimpico era un tripudio giallorosso (tutto di parte romanista) e prima della partita l’atmosfera era quella di un campionato ormai vinto. Nel pre-partita, i vertici della Roma, rappresentanti della tifoseria ecc. si abbandonarono a giri d'onore e a prematuri festeggiamenti.
L'atmosfera era tale che la Roma scese in campo rilassata. E noi altrettanto, dato che anche in caso di sconfitta non sarebbe cambiato nulla. Loro, invece, battendoci avrebbero messo le mani sullo scudetto. Dopo appena 7 minuti eravamo sotto di un gol (Graziani) ma poi riuscimmo a pareggiare con Albertino Di Chiara; successivamente, ci portammo sul 3 -1 con una mia doppietta. La partita finì 3-2 per noi, tra l’incredulità generale. Boniek (ex juventino), ci voleva ammazzare tutti per lo scudetto ormai svanito per “colpa” nostra. Nell’ultima partita la Roma, ormai demoralizzata, andò a perdere a Como mentre la Juventus, pur soffrendo tanto, riuscì a batterci a Lecce, soffiando praticamente sul filo di lana lo scudetto alla squadra di Ericsson.


La “vendetta”di Fiumicino.

A proposito di quella storica partita, le conseguenze si son fatte sentire anche 3 anni fa.  Tornando nel Salento per giocare una partita di beneficenza, sbarcai a Fiumicino: fermato da alcuni poliziotti per i controlli di rito, mi fu chiesto di seguirli nell’ufficio di Polizia. Viaggiavo completamente da solo e, devo confessarvi, mi sono spaventato un bel po'! Non capivo il motivo di quei controlli supplementari. Invece, dopo aver fornito ancora una volta le mie generalità, mi fu chiesto se fossi io quel Barbas che aveva militato nel Lecce. Ed io confermai. Così mi dissero: “Per colpa sua abbiamo perso lo scudetto… adesso gliela faremo pagare... arrestandola!”. Una risata generale mi fece capire di essere stato vittima di una simpatica burla, ma vi garantisco che mi ero allarmato non poco per tutta quella strana situazione.


La Serie B  e l’amarezza degli spareggi.

Dopo la retrocessione in Serie B, non fu un problema per me affrontare una nuova esperienza in un campionato meno meno prestigioso come quello cadetto. Peraltro, disputammo due stagioni avvincenti! Nel primo anno, dopo una rincorsa entusiasmante, chiudemmo al terzo posto insieme a Cremonese e Cesena. Fummo pertanto costretti a giocarci agli spareggi l’ultimo posto disponibile per la promozione in A. Purtroppo non ci andò bene, perché nella partita-bis contro il Cesena, a S.Benedetto del Tronto, fummo sconfitti 2-1. Per me la delusione fu due volte più cocente, dal momento che non giocai quella sfortunata gara per squalifica. Dopo aver pareggiato la prima partita a Pescara contro il Cesena (0-0), ci liberammo della Cremonese con un sonante 4-1. Ma proprio nel corso di questo match fui ammonito per una sciocchezza ma quel cartellino mi fece saltare la sfida decisiva, essendo in diffida. Peccato! Eravamo i favoriti e ricordo ancora le decine di migliaia di salentini che colorarono gli stadi in cui giocammo le partite degli spareggi. Archiviata quella delusione, nella stagione successiva conquistammo la promozione in A grazie ad un campionato molto convincente. Guidati da Carletto Mazzone (subentrato a Santin nel corso della stagione precedente), chiudemmo al secondo posto tra l’entusiasmo indescrivibile dell’intero Salento.


Carletto Mazzone.

E’ stato un secondo padre per me. Anche lui, uomo dall'aria severa, con me si è dimostrato sempre disponibile, comprensivo e affettuoso. Anche se non esitava a riprendermi in allenamento. Ma i suoi rimbrotti erano sempre a fin di bene e solitamente destinati a me per far intendere a tutti gli altri. Mi è stato accanto nei momenti più difficili, dandomi sempre preziosi consigli e mettendosi a disposizione in ogni circostanza. Alla squadra trasmetteva una grinta incredibile e sapeva come creare un gruppo compatto. E ottenne sempre l’obiettivo prefissato: promozione in A, tre campionati consecutivi nella massima serie, record storico per il Lecce. Ancora oggi mi diverto a riguardare le immagini di Lecce-Torino 3-1, quando il mister, dopo il mio gol su punizione, sfogò  contro un secchio d'acqua tutta la rabbia per la campagna di stampa che ci aveva accompagnato per tutta la settimana, spudoratamente a favore del Toro . Una scena indimenticabile!
Dopo le tre salvezze consecutive in Serie A, le sue legittime aspirazioni a puntare più in alto con il Lecce lo portarono alla decisione di lasciare il Salento. Ma il  tecnico (e l’uomo) Mazzone resta una figura fondamentale nella mia vita e ritengo che mi abbia fatto crescere molto in tutti i sensi. Ci legava una profonda stima e un sincero affetto. Ricordo che una sera, mentre eravamo in ritiro in hotel e stavamo conversando, mi disse: “Beto, vai al bar e torna con due whisky”. Io, sorpreso dalla sua richiesta gli chiesi: “Mister, come DUE whisky…?!”, ben sapendo che ad un atleta quel tipo di drink non è assolutamente consentito. E lui prontamente replicò: “Dai Beto, fai come ti ho detto e bevi subito, ché se ti vede il tuo allenatore ti multa!”. Lui è fatto così, sa gestire perfettamente i suoi giocatori. E’ come un padre, in grado di capire quando usare il polso e quando essere accondiscendente.


Derby e i gol più belli

Vivevo i derby contro il Bari come tutti i tifosi salentini: già una settimana prima della partita ero in clima-gara e volevo già essere in campo. Tutta la città pensava solo a quella partita, e si sentiva che per loro era un match a parte. Per quanto mi riguardava, invece, era una partita come tutte le altre perché la mia voglia di vincere non dipendeva dall’avversario che avevo davanti: in qualsiasi cosa giocassi, a carte come al calcio balilla, al biliardo ecc. volevo sempre vincere. Per me quindi era sì una sfida particolare ma non una partita in piu’. Ricordo che prima del derby la gente ti fermava per strada e ti faceva sentire quanto ci tenesse alla vittoria: "Dobbiamo vincere a tutti i costi, mi raccomando!” e noi facevamo del nostro meglio per vincere per i nostri tifosi.
Il derby che ricordo con più piacere è quello vinto grazie ad un mio gol su calcio di punizione (campionato di Serie B 1987/88): De Trizio si mise sul palo e, pur saltando, non riuscì ad evitare che il mio tiro passasse tra la sua testa e la traversa. Ogni tanto mi capita di rivedere il filmato di quel bel gol…
Comunque, senza falsa modestia, di reti belle ne ho realizzate diverse. La più bella, probabilmente, è quella segnata al Genoa. Bella quanto strana: il mio tiro colpì la traversa, si impennò in aria e, battendo a terra, per uno strano effetto finì in rete. Un gol davvero raro a vedersi.
La rete che per me ha un significato particolare, invece, la segnai all’Udinese. Nel corso della settimana era venuta a mancare mia suocera, in Argentina, alla quale ero molto legato. Ci tenevo tantissimo a dedicarle un gol, dato che non mi fu possibile essere presente al suo funerale. Fu anche quello su punizione, con il pallone che riuscì a sorvolare la barriera di quel tanto che bastava per mettere fuori causa il portiere.


Il triste addio al Lecce.

Il giorno in cui ho saputo che non rientravo più nei piani del Lecce è stato il più brutto della mia vita. Era l’estate del 1990. Parlando con il diesse Cataldo avevo avuto la netta sensazione che sarei rimasto a Lecce e sapevo che Jurlano mi avrebbe tenuto a vita. Ma poi, con l’arrivo di Boniek, i piani evidentemente cambiarono.
Fui convocato in società dallo stesso Cataldo e mi fu proposto il prolungamento del contratto per un’altra stagione a condizione che, se non fossi andato bene, a giugno mi avrebbero lasciato libero e, nel frattempo, mi avrebbero regolarmente pagato lo stipendio. Sapendo che ero ancora in buona forma e pensando a tutto ciò che avevo dato al Lecce, accettai senza esitare, sicuro che non ci sarebbe stato alcun problema, neppure dal punto di vista economico visto che non avevo chiesto alcun aumento.
Andai al mare e al mio ritorno a casa, in serata, un amico mi chiamò e mi chiese: “Hai letto i giornali? Boniek ha voluto Alejnikov e non ha voluto te!” A quelle parole era come se mi fosse crollato il mondo addosso. Non avrei mai immaginato che, dopo tutto quello che avevo dato al Lecce, il destino mi avrebbe riservato quell’addio forzato. Non riuscivo a crederci ma purtroppo era così. Mi sono sempre chiesto quale fu il vero motivo che portò Boniek a scaricarmi in quel modo, ma non sono riuscito mai a darmi una risposta. Eppure a Lecce mi volevano tutti, avevo anche preso la cittadinanza italiana… Qualche volta sono stato tentato di pensare che quella famosa partita Roma-Lecce 2-3 che gli fece perdere lo scudetto con la Roma (e nella quale segnai due gol) abbia potuto influire nella sua decisione. O magari non gradiva la mia presenza perché troppo amato dai tifosi, mentre voleva essere lui il protagonista di quel Lecce. Non so proprio spiegarmelo ma di certo la sua scelta ha determinato una svolta notevole alla mia carriera e alla mia vita. Ero disposto a tutto pur di restare a Lecce, ma non certo a rubare lo stipendio. Così non mi restava che cambiare squadra. Sapevo che il Brindisi, che militava in C1, era molto interessato al mio cartellino. Era una buona soluzione, soprattutto perchè mi avrebbe consentito di rimanere a Lecce: tuttavia si trattava di un’operazione molto difficile da portare a termine anche a causa di una differenza di categoria non indifferente. Fu così che il mio procuratore mi prospettò la possibilità di trasferirmi in Svizzera, al Locarno.


L’esperienza svizzera

A dire il vero, l’esperienza in Svizzera è stata la parentesi della mia vita e della mia carriera che ricordo con meno piacere. Per svariati motivi non mi sono trovato bene come a Lecce. Mi mancava quel calore che mi aveva sempre circondato. Qui tutto era freddo. A Lecce, dopo ogni partita, ti aspettavano all’uscita dello stadio per un autografo, una foto, sentivi chiamare il tuo nome. In Svizzera niente di tutto questo. All’uscita ti aspettavano solo i custodi dello stadio che non vedevano l’ora di chiudere il portone. Nessun giornalista, nessun tifoso ad aspettarti. Una freddezza a cui non ero abituato. Un’esperienza che considero davvero negativa. Tra l’altro non parlavo e non capivo il francese e soffrivo la lontananza dalla mia famiglia, rimasta a Lecce. Il mio inatteso passaggio al Locarno, infatti, non ci aveva permesso di organizzare il trasferimento della mia famiglia in Svizzera, anche perché le mie figlie già frequentavano la scuola a Lecce. Fortunatamente, ogni volta che potevo scendevo giù nel Salento, oppure era la mia famiglia a venire a trovarmi su a Locarno. Fu un anno difficile. L’anno successivo, nel Sion, qualcosa migliorò per me. Avevo di nuovo la famiglia accanto e anche la stagione mi riservò la soddisfazione di vincere il campionato elvetico.


Il ritorno in Argentina.

A 34 anni stavo ancora bene fisicamente, mai un infortunio. Ero ancora in forma. Il mio desiderio era sempre quello di tornare a Lecce ma ancora una volta non fu possibile. Era giunto il momento di tornare in Argentina, anche perché neppure la mia famiglia si era ambientata in Svizzera.
In Argentina ho ricominciato a nell’Huracàn ma dopo 6 mesi, a causa di un infortunio al ginocchio, sono stato costretto a fermarmi. La mia grande passione per il calcio mi fece ricominciare a giocare, anche se in una serie inferiore nell'Alvarado. In seguito ad alcuni problemi societari, passai all'All Boys in serie B, chiamato da un mio ex allenatore ai tempi del Racing, il quale nonostante i miei 35 anni, mi considerava ancora un calciatore su cui puntare. Lasciai il calcio giocato nel 1998 e mi fu subito proposto di allenare la seconda squadra. Una nuova esperienza, ma molto coinvolgente. Dopo la parentesi All Boys, ho allenato la "Primavera" del Racing Club, dove ho avuto l'opportunità di selezionare ed allenare calciatori che oggi sono protagonisti nel campionato Argentino. Attualmente alleno la "Primavera" del San Lorenzo (la prima squadra è affidata ad una vecchia conoscenza del campionato italiano, Ramon Diaz). Allenare è un'attività che mi piace molto e regala tante emozioni, ma devo ammettere che il mio sogno sarebbe quello di allenare in Italia.


Lecce, il Salento e i miei ricordi.

Non saprei da dove cominciare. Sono tanti i ricordi che mi legano a quella terra che mi ha accolto, coccolato e fatto crescere come uomo. E sono tutti ricordi meravigliosi, per me e per la mia famiglia. Pensiamo spesso a quel periodo, ai tanti amici che ci hanno fatto ambientare senza problemi e sentirci come a casa nostra. Con qualche amico ed ex compagno di squadra mi sento tuttora e, in occasione di un mio ritorno qualche anno fa, è stato bellissimo ritrovarmi con alcuni di loro. Checco Moriero, Pedro Pablo Pasculli e tanti altri amici mi hanno accolto come se tutti questi anni non fossero mai trascorsi.
Ho potuto rivedere quegli incantevoli posti che frequentavamo: Porto Cesareo, Otranto, Gallipoli, Castro, Leuca, Maglie e altre località dove abbiamo lasciato tanti amici che ricordiamo sempre con piacere. Così come non è possibile dimenticare la vostra squisita cucina: eravamo ghiottissimi di pesce, ma dobbiamo ammettere che da voi tutto ha un sapore eccezionale. In poche parole ci manca tutto del Salento e nel nostro cuore c'è sempre il desiderio di tornare nel posto in cui ci siamo trovati meglio e al quale siamo ancora tanto legati. Ancora oggi, quando a Buenos Aires noto dei turisti parlare italiano, sono spinto ad avvicinarmi e parlare la vostra bellissima lingua. Gli anni passano, e mi dispiacerebbe dimenticarla... così a volte non mi lascio sfuggire l'occasione di parlare italiano per qualche minuto. 
 

L'amicizia con Diego Armando Maradona.

L’ho conosciuto in nazionale juniores nel 1979, in occasione di un provino riservato a tutti i calciatori che erano nel giro delle rispettive prime squadre. Diventammo subito molto amici, probabilmente ci legavano le nostre umili origini. Ricordo che andavamo spesso all’allenamento con la sua auto, visto che io non ce l’avevo. Entrambi venivamo da una famiglia umile e ci è costato tanti sacrifici e lavoro arrivare in nazionale juniores e poi in quella maggiore. In ritiro dividevamo la stessa stanza e, successivamente, le nostre fidanzate si sono conosciute diventando molto amiche. Così frequentavamo spesso casa di Diego e il nostro ottimo rapporto d'amicizia è diventato duraturo.
Proprio per questo ci è molto dispiaciuto per i problemi che Diego si è ritrovato ad affrontare dopo la sua carriera calcistica. E in virtù della profonda amicizia che ci sempre legati ho sofferto molto, insieme alla mia famiglia, per il suo precario stato di salute. Fortunatamente ora si è rimesso e gira il mondo. Anzi, ho saputo che proprio in questi giorni si trova in Italia, ospite di qualche suo ex compagno del Napoli.
Io per certi versi posso immaginare quale sia stata l’origine dei suoi problemi: non è facile essere Maradona, personaggio celebre in tutti gli angoli del mondo. Da sempre, non è libero di camminare per strada senza essere riconosciuto e stretto in una morsa di affetto che però non gli consente di vivere una vita normale, di aver diritto alla sua privacy. Ho assistito personalmente a tutto questo andando al ristorante o bevendo un caffè con lui: continuamente foto, autografi e ogni genere di richieste.
Se poi pensiamo a cosa ha dovuto subire per essere sempre il n.1 nel calcio… il quadro è completo. Infortuni che hanno minacciato di troncargli la carriera sin da giovane, superati con sofferenza, incredibile impegno e sudore. Per poter continuare a giocare a calcio si doveva sottoporre a continue infiltrazioni al ginocchio e alla caviglia, sempre doloranti, e solo lui sa la sofferenza che tutto ciò gli procurava. Era il costo per poter essere il più grande nel suo sport. E ancora oggi sconta questo privilegio.
Mi fa piacere che ora riesca a condurre una vita molto attiva, questo lo aiuta tanto. Ma per questo motivo, purtroppo, non riusciamo a sentirci o a vederci spesso come in passato, anche se i contatti tra mia moglie Adriana e sua moglie Claudia restano ancora frequenti. Tra l’altro, proprio Claudia è stata la madrina di battesimo della mia seconda figlia Daniela, che adesso ha 22 anni.


La mia famiglia.

Mia moglie e le mie figlie sono quanto di più bello la vita mi abbia regalato. L’affetto dei miei cari ha sempre avuto un posto di rilevo per me. Ovunque sia stato, la mia famiglia mi è stata accanto. Mia moglie Adriana mi ha sostenuto ed è stata fondamentale in ogni aspetto della mia vita. Ci siamo sposati quando io avevo 22 anni e mia moglie 19. Per un calciatore è molto importante il sostegno di una moglie e, nel mio caso, devo ammettere che senza di lei non sarei stato il calciatore e l’uomo che sono. Abbiamo avuto tre figlie, tutte nate in Argentina. La maggiore è Gabriela, nata nel 1983; due anni dopo abbiamo avuto Daniela e, dopo la mia carriera calcistica in Europa, è nata Maria Victoria, nel 1994. Mi farebbe piacere poterle mostrare il Salento, la terra nella quale i suoi genitori e le sue sorelle più grandi si sono trovati meravigliosamente bene. Terra che lei non ha ancora avuto modo di conoscere. Chissà, prima o poi...!

Un caro saluto a tutti voi!                                                                        Beto Barbas
 

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